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Sveglia!

  • brand eins
  • 25 dic 2015
  • Tempo di lettura: 12 min

La cultura del lavoro nella Corea del Sud è segnata da gerarchie, ore straordinarie e alcol. Inizia però a crescere la resistenza nei piani bassi e in quelli alti.

Dalle 9 del mattino Bae Myeongji (nome inventato) siede alla sua scrivania in un cubicolo al sedicesimo piano e scrive al computer. Sa scrivere al computer molto velocemente. Alcuni dicono che sia la più veloce del piano. Myeongji lavora nell’ufficio vendite di una filiale della Samsung a Seoul. E’ responsabile per l’area sudovest dell’Asia, parla Tagalog, la lingua maggiormente diffusa nelle Filippine. Nonostante sia laureata in ingegneria, si è inserita bene nelle vendite. Ha trentasei anni, è nubile, si veste secondo la moda e fatto ancora più importante, non lascia che nessuno passando riesca a vedere sul suo schermo dove nella parte inferiore a destra appare una piccola finestra:


- “Mamma mia, che aria distrutta hai!”

E’ il suo vicino di scrivania. Non lascia

trasparire che le sta scrivendo. Myeongji

nasconde un sorriso appena accennato

e scrive:

- “Davvero? Credevo di nasconderlo

bene.”

- “Dove siete stati?”

- “Fino alle 2 a Gangnam, in un nuovo

locale.”

- “Come si chiama?”

- “Pamgua Eumak Ssai (tra la notte e la

musica).”

- “Cercavi un fidanzato? Sei di nuovo

single, no?”

- “No, per ora ne ho abbastanza!”

- “Capisco, ‘abbastanza’, kkkkk…”

Nel gergo chat coreano, la “k” sostituisce la faccina che sorride e imita il suono della risata. Nel corso di una giornata di lavoro, Myeongji preme spesso il tasto “k” sulla tastiera. Non ha la coscienza sporca a chattare tanto, fare shopping online, andare spesso al bagno o nella sala di riposo dell’azienda. Lei sa di non essere l’unica a lavorare così. In ufficio lavorano una trentina di persone. Tutti battono diligentemente i tasti della tastiera.

Ma quando a fine di questa giornata, iniziata con i postumi da sbornia della sera prima e che terminerà alle 18 in punto, chiediamo a Myeongji quanti dei trenta colleghi abbiano veramente sempre da fare, si ferma un attimo a riflettere e dice: “Secondo me circa dieci o undici. Il capo spesso non sa nemmeno quanto tempo richieda effettivamente il lavoro assegnato.” Myeongji potrebbe finire lo stesso giorno e aspettare il prossimo lavoro. “Preferisco suddividere il lavoro su più ore e più giorni.”


Potrebbe sembrare uno spreco catastrofico di forza lavoro, che non si addice a una nazione che in cinquant’anni si è trasformata da un paese in via di sviluppo in una nazione di punta nel mondo asiatico. La Corea del Sud è però colma di contraddizioni. Nelle classifiche economiche, la Corea del Sud può essere ai primi posti come agli ultimi: Indice di innovazione di Bloomberg (primo posto), indice di povertà delle persone di terza età nel confronto OCSE (primo posto), classifica PISA (primo posto), indice OCSE-Better-Life (27esimo posto su 36 paesi). Interessante è notare che gli orari di lavoro nel Sud della Corea sono al secondo posto per lunghezza tra i paesi appartenenti all’OCSE, dopo il Messico, con una produttività minore. Nel 2012, i lavoratori nel Sud della Corea, lavoravano 2163 ore Fonte: brand eins edizione 08/2015 l’anno, 430 in più degli italiani e 800 in più dei tedeschi. Eppure, in Germania e in Corea del Sud la diligenza conta tra le virtù più importanti. In Corea del Sud la materia “Yeolshimi” (diligenza in coreano) è insegnata alle elementari.


Come si concilia questo con la quotidianità di Myeongji? L’americano Thomas L. Coyner vive nella Corea del Sud dagli anni settanta. Da poco ha pubblicato la seconda edizione del suo libro sull’etica del lavoro nella Corea del Sud. Quando cammina attraverso Seoul, conosce la storia di molti luoghi. Conosce i luoghi migliori per fare escursioni, i locali più in voga e i tantissimi caffè della capitale. “Oggi, l’ottantotto percento dei giovani ha una laurea”, dice, “dietro ai banconi di questi locali lavorano persone con il livello di educazione più alto al mondo!”. Anche loro sono diligenti, yeolshimi, ma è uno spreco scandaloso di capitale umano.

Il concetto tedesco di ‘Feierabend’ (serata in festa - inteso come fine lavoro), qui è preso alla lettera

Nella Corea del Sud è normale essere incaricati di eseguire un lavoro che esula dalle proprie competenze. Myeongji, un ingegnere che lavora nelle vendite, non è un’eccezione. “La maggioranza degli impiegati inizia in un’azienda come apprendista per poi scalare lentamente la gerarchia.” dice Coyne. Qui è ancora oggi importante lavorare in una cosiddetta Chaebols, società multinazionale quale LG, Samsung o Hyundai. Questi giganteschi conglomerati operano in diversi settori, dalla microelettronica attraverso le assicurazioni sulla vita, gli hotel, i centri commerciali fino all’industria del metallo pesante e della chimica. Le dieci più grandi Chaebols insieme, rappresentano quasi l’ottanta per cento del prodotto interno lordo della Corea del Sud. E ciononostante, sono gestite come imprese familiari. Da quando, nel 2008, il numero uno della Samsung fu prima condannato per evasione fiscale e poi graziato dal Presidente, le grandi aziende sono considerate “too big to fail”, ovvero troppo grandi per fallire.


“Proprio nelle grandi aziende è importante costruire un rapporto personale con i colleghi” dice Coyner e racconta di rituali quali gite di gruppo e “Prima di pranzo non si può ragionare con i coreani del sud.” generazione attuale, durante l’infanzia non ha quasi mai visto il padre. “In Corea del Sud, questo comportamento è collegato a una forma d’impegno patriotico per la nazione” dice Coyner. L’orgoglio nazionale come forza motrice di orari di lavoro lunghi abbinato all’emozione di lavorare per un’azienda globale, sono sentimenti che Bae Myeongji conosce molto bene. I suoi genitori sono orgogliosi di lei.

Non solo si è laureata alla famosa Korea University, ma è anche riuscita a trovare lavoro in Samsung. Eppure Myeongji conosce anche l’altro lato della medaglia, indipendentemente dalle serate alcoliche. Parla di una “cultura della paura” che subisce. “Tutti i miei colleghi temono di sbagliare e soprattutto che il capo gli urli contro in ufficio davanti a tutti.”


Questo è già successo ad alcuni dei suoi colleghi. “Inoltre, Samsung vuole sapere tutto di noi. Possiamo accedere alla sala di riposo solo con il nostro badge.” Pochi mesi prima dell’intervista, ha scoperto che la segretaria protocollava in segreto e con precisione fino al minuto, chi faceva pausa pranzo e per quanto tempo. “Questo fece clamore nel nostro team”. Questa cultura è descritta bene in un libro dell’autore francese Eric Surdej pubblicato nella primavera scorsa. In memoria alla celebre frase di Asterix “Sono pazzi questi romani” ha dato al libro il titolo “Ils sont fous, les Coréens”. L’ex capo di LG, che in passato aveva lavorato in Francia per società giapponesi come Sony e Toshiba, narra di un controllo forzato, di cattive maniere, di alcolismo e di una grave mancanza di serate alcoliche (“Hui-Sik”). “In queste occasioni si ristabiliscono soprattutto le rigide gerarchie.“ Le uscite sono a spese dell’azienda e finiscono molto tardi. La tradizione prevede tre giri in tre bar diversi. La bevanda principale è il Soju, distillato di riso con un tasso alcolico pari a 19%. Il consumo equivalente di alcol puro pro capite nella Corea del Sud è di 12,3 litri l’anno. Ancora una volta, il paese si aggiudica un primato. In Germania il consumo di alcol puro per persona è di 11,8 litri mentre in Italia è di 6,7 litri.


Chi inizia a lavorare viene lentamente introdotto in questo sistema: Quando Kim Yun-Seo era ancora nuova nell’azienda informatica dove fu assunta, eseguiva esclusivamente lavori accessori, nonostante la laurea. “Facevo fotocopie, caffè, archivio e organizzavo le serate alcoliche.” Organizzare Hui-Sik divenne la sua attività principale. “A volte mi sembrava di essere nel business dell’intrattenimento”. Il ristorante doveva essere quello giusto, come anche il prezzo e la vicinanza all’ufficio. “Hanno il Soju con l’etichetta rossa?” Quando qualcosa non andava bene, era colpa della specialista informatica, cioè sua. Durante la cena, sedeva spesso vicino al capo, e faceva commenti di approvazione: “Sì, esatto! Giusto!”.


Secondo Coyner, le serate alcoliche e le conseguenti sbronze, sono tra i principali problemi del paese. “Prima di pranzo non si può ragionare con i coreani del sud”, dice. I nuovi arrivati che egli assiste nelle prime settimane, rimangono regolarmente scossi dalla frequenza di queste serate. Loro sono abituati a godersi il proprio tempo libero di sera. Per i coreani del sud invece, l’equilibrio tra lavoro e tempo libero, è un’idea occidentale. “Tradizionalmente, l’ufficio è famiglia.”


La generazione attuale, durante l’infanzia non ha quasi mai visto il padre. “In Corea del Sud, questo comportamento è collegato a una forma d’impegno patriotico per la nazione” dice Coyner. L’orgoglio nazionale come forza motrice di orari di lavoro lunghi abbinato all’emozione di lavorare per un’azienda globale, sono sentimenti che Bae Myeongji conosce molto bene. I suoi genitori sono orgogliosi di lei. Non solo si è laureata alla famosa Korea University, ma è anche riuscita a trovare lavoro in Samsung. Eppure Myeongji conosce anche l’altro lato della medaglia, indipendentemente dalle serate alcoliche. Parla di una “cultura della paura” che subisce. “Tutti i miei colleghi temono di sbagliare e soprattutto che il capo gli urli contro in ufficio davanti a tutti.” Questo è già successo ad alcuni dei suoi colleghi. “Inoltre, Samsung vuole sapere tutto di noi. Possiamo accedere alla sala di riposo solo con il nostro badge.” Pochi mesi prima dell’intervista, ha scoperto che la segretaria protocollava in segreto e con precisione fino al minuto, chi faceva pausa pranzo e per quanto tempo. “Questo fece clamore nel nostro team”.


Questa cultura è descritta bene in un libro dell’autore francese Eric Surdej pubblicato nella primavera scorsa. In memoria alla celebre frase di Asterix “Sono pazzi questi romani” ha dato al libro il titolo “Ils sont fous, les Coréens”. L’ex capo di LG, che in passato aveva lavorato in Francia per società giapponesi come Sony e Toshiba, narra di un controllo forzato, di cattive maniere, di alcolismo e di una grave mancanza di rispetto da parte dei dirigenti verso i propri collaboratori.


La situazione era talmente estrema, da imporgli di assicurarsi personalmente che i negozi vicini alla sede esponessero in vetrina solo telefoni LG, altrimenti i suoi capi si sarebbero indignati moltissimo. Il significato di “indignati” è ben descritto nella scena in cui durante una riunione un capo scaraventa una sedia contro un suo collaboratore. Il sottotitolo del libro è: “Dieci anni di folle efficacia”. LG ha dichiarato che le testimonianze documentate nel libro sono esagerate. Secondo Thomas L. Coyner, nella Corea del Sud la paura domina il mondo del lavoro, riducendone la produttività. “E’ come stare in piedi in una stanza buia senza sapere cosa possa succedere se allungassi la mano: prenderò una scossa oppure toccherò semplicemente una parete?”. Si aggiunge la convinzione che solo la pressione possa aiutare. “I sudcoreani”, dice Coyner “sono molto bravi a eseguire un lavoro in poco tempo.” Ciononostante potrebbe succedere che un problema non sia affrontato per un lungo periodo per non mettere a disagio – in coreano “Kibun” – il capo. “Di conseguenza, taccio sull’urgenza del problema oppure mento”, dice sempre Coyner. Alla fine, il capo se ne accorge da solo e si scatena l’inferno.


“Questo non è particolarmente produttivo ma difficile da cambiare, la qualità del lavoro ne risente.” E così anche la qualità della vita. Ovunque a Seoul è possibile vedere persone consumate dal troppo lavoro, accovacciate con la ventiquattrore per terra al loro fianco, in attesa del bus. Si addormentano esauste nel metrò e si risvegliano al suono della melodia che indica una stazione di cambio. Allora, alzano lo sguardo e senza alcun segno d’irritazione corrono. Le linee a terra e i cartelli al muro li guidano come una fune per centinaia di metri fino ai binari di cambio. All’arrivo del prossimo metrò, suona la campanella. Diversamente dalle metropoli quali Londra e Hong Kong, a Seoul che accoglie venticinque milioni di persone, i passeggeri restano realmente in fila a sinistra. Sono troppo stanchi. Byung-Chul Han, professore di Filosofia e Sociologia all’università delle Arti di Berlino, è nato in Corea del Sud.


Coloro che leggono il suo famoso pamphlet dal titolo “La società della stanchezza”, vorrebbero ripetere ad alta voce: “La società della prestazione crea depressi e falliti” oppure “Il soggetto della prestazione è in guerra con se stesso”.

Chi vuole uscire prima dall’ufficio, svicola

Kim Yun-Seo, la specialista informatica, non vuole più svicolare. Dice: “Durante il primo anno, ho fatto molti straordinari. Adesso non più, da molto tempo.” Non è d’accordo a far sembrare di avere tanto da fare. Kim pratica sport e ha degli amici che vorrebbe incontrare. Eppure, anche se può sembrare molto sicura di sé, a volte quando arrivano le sei di sera, non lo è per niente. “Non posso semplicemente prendere la borsa e andare” dice. Piuttosto che essere una delle prime a lasciare l’ufficio, deve simulare un malore. Mostra all’intervistatore come fa: Si alza timidamente, mentre è ancora piegata, prende la sua borsa e abbandona l’ufficio sempre piegata. “Idealmente lo faccio quando la mia capa è in bagno.” E’ un modo accettato che non fa perdere la faccia a nessuno.


L’esagerato rispetto per i superiori, da una parte impedisce qualsiasi forma di critica al loro giudizio e dall’altra inibisce la creatività. Chi è più giovane deve seguire il consiglio del più anziano, la contraddizione non è benaccetta. Gli storici riconoscono qui l’influenza del confucianesimo e della dittatura militare instauratasi dopo la guerra del 1953. Ancora oggi, gli uomini della Corea del Sud assolvono due anni di servizio militare e la frase: “Non l’ha imparato al militare?” li accompagna per tutta la vita. Inoltre, a ciò si aggiunge che la lingua coreana è molto gerarchica. Esiste il “tu”, il “Lei” e un grado ancora superiore. Questa forma elevata di rispetto è rivolta ai capi.


La rigida gerarchia e il basso carico di lavoro sono i due motivi per cui Myeongji si destreggia così diligentemente tra borse e foulard nei negozi online. “Senza il capo, non si muove nulla. Spesso dipendo totalmente dalla sua risposta. Lui valuta le mie proposte, e finché non mi dà riscontro, siedo alla scrivania e aspetto.” Da qualche anno però, le gerarchie iniziano a diventare meno rigide. Per lo meno, ne è persuaso l’americano Thomas L. Coyner. Su richiesta, è possibile richiedere all’ufficio stampa della Samsung una copia della lista delle riforme. Secondo questo documento, Samsung sta valutando modelli di lavoro che permettano ai collaboratori di suddividere il lavoro in modo autonomo: devono essere in ufficio almeno 4 ore al giorno e lavorarne almeno 40 a settimana. “Questo è soltanto un modello che stiamo valutando” dicono in azienda. Anche le serate alcoliche devono essere ridotte. La nuova regola si chiama “119”: 1 locale, 1 tipo di alcolico, fino al più tardi alle 9 di sera. Altrimenti l’azienda non ne sostiene il costo. “In ogni caso, non troviamo più personale giovane, disposto a partecipare volontariamente a questo tipo di serate”, comunica l’azienda.


Lentamente, qualcosa sta cambiando. Anche se, ancora oggi, chi esce la sera nella zona animata della capitale, troverà grandi gruppi di impiegati provenienti dai grattacieli, sedere insieme. Sul tavolo numerose bottiglie di Soju. La vera forma moderna di etica del lavoro sudcoreana, si trova non lontano dalla zona animata appena descritta. Questo luogo si chiama Gangnam ed è dove Myeongji esce abitualmente. Qui, le start-up sudcoreane si installano in cortili e piccoli uffici. In Asia, Seoul è la città più importante per i fondatori di start-up.

Un’opportunità per un nuovo modo di lavorare.

Anche le start-up lavorano tanto, ma diversamente

Zikto è il nome di una di queste start-up, nata da poco meno di un anno, in cui lavorano quasi soltanto ex-collaboratori di grandi aziende. I due fratelli Brian e Ted Kim hanno sviluppato un bracciale, che indica al portatore quando la sua postura - mentre cammina o quando è seduto - è da correggere attraverso una vibrazione. In precedenza entrambi hanno lavorato per Samsung e LG. Hanno mantenuto le lunghe giornate lavorative, ma adesso lo fanno per sé stessi, esattamente come a Berlino, Londra e San Francisco. “Spesso lavoriamo fino a mezzanotte, ma non perché siamo obbligati.” dice Brian Kim. Il motivo è che di giorno partecipano a così tante riunioni e appuntamenti, che soltanto di sera riescono a svolgere il lavoro effettivo. Quando hanno bisogno di una pausa, se la prendono. “Se vogliamo andare al cinema, ci andiamo e basta” dice. Dei tempi in cui lavorava da LG, Ted Kim si ricorda soprattutto le urla in ufficio. “Ora, questo è finito.


Parliamo coreano tra di noi, e ci diamo del tu.” All’inizio, era strano rivolgersi l’un l’altro con il nome di battesimo, ma evitava ingarbugliate forme di cortesia collegate all’età. “Strano è stato anche poter prendere decisioni soltanto insieme nel team.” Soltanto verso la fine della nostra informale conversazione nel loro luminoso ufficio, ci confidano le prospettive future meno rosee: infatti, potrebbe capitare che siano acquisiti da una Chaebol (grande azienda). Non sarebbe la prima società start-up a ricadere tra le braccia della grande azienda. E allora, varrebbero nuovamente le vecchie regole.


Chi vuole approfondire, può seguire la serie TV “Misaeng” che nel 2014 scosse la nazione e raggiunse un’insolita quota di audience di quasi 19%. Un risultato ancora più insolito perché raggiunto grazie a un argomento che molti pensavano non interessasse nessuno: l’ufficio sudcoreano. Nella serie TV, si urla e si beve tanto. Si fanno molte ore di straordinari, vecchi uomini palpano giovani donne e trattano male i propri collaboratori. Il personaggio principale è il giovane Geu-Rae, che in venti episodi si affanna per integrarsi nell’ufficio. Già nel primo episodio, il capo manda tutti i collaboratori in fabbrica dove, in piedi davanti a dei bidoni e con le mani immerse in un torbido brodo, cercano di catturare dei polipi. Geu-Rae è un melanconico lottatore solitario, evitato dai colleghi.


Il suo nome, non senza intenzione, significa “sì” in coreano. Egli fa tutto ciò che i capi e i colleghi si aspettano da lui. Solo nel tempo capirà che così non funziona. Imparerà a disarmare i rivali, a convivere con l’invidia e a dormire poco. Sua madre appare raramente e soltanto quando, per esempio, lo incalza: “E’ tutto il week end che non dormi, mangia almeno qualcosa!”. L’edificio rosso quadrato della serie TV esiste davvero. E’ situato di fronte alla stazione centrale nel centro di Seoul. Vi è una scena in cui Gu-Rae scrive qualcosa su un biglietto e lo nasconde in una crepa nel muro. Il biglietto serve per auto-motivarsi in momenti particolarmente tristi. Alla fine dell’ultimo episodio, proprio davanti alla facciata dell’edificio rosso, cala un cartellone su cui è scritta la frase che il protagonista ha scritto sul biglietto: “Hai fatto tutto ciò che eri in grado di fare.” Qualcuno, sotto, ha scritto in inglese: “Yes!” nell’ultimo episodio Geu-Rae dà le dimissioni.

Fonte: brand eins edizione 08/2015

Articolo originale di: Soeren Kittel

Fotografie di: Jun Michael Park/ VOA News

Traduzione di: Caecilie O. Hechtel/ Katri Gelati

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